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Pagina creata il 12 Marzo 2018
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Aggiornata Martedì 13-Mar-2018

 

FESTA DI SANTA CROCE, Ricette segrete

 

Tra i dolci tipici lucchesi, una nota a parte la meritano senz’altro i “frati”, ciambelle di farina, lievito ed altri ingredienti misteriosi, fritte nell’olio e vendute ricoperte di zucchero.

A Lucca vi erano due banchetti ambulanti che le producevano e le smerciavano sulla pubblica via: il Nelli (ancora esistente con il suo chiosco super attrezzato itinerante) e il banco di Tuna, mia nonna, che però lo montava solo in Piazza San Michele nei periodi in cui si svolgeva il mercato, in particolare durante la festa di Santa Croce, a Settembre.

I due banchetti si trovavano ai lati opposti della piazza, quasi vi fosse un sotteso duello a colpi di ciambelle – una sfida a chi le faceva più buone, ne vendeva di più. Il nostro banco era di fronte al loggiato di Palazzo Pretorio, esattamente sull’angolo della piazza, l’altro, di fronte alla farmacia.

Durante i mercati, tutta la mia famiglia era chiamata a contribuire all’enorme sforzo che tale attività richiedeva, anche perché, contemporaneamente, mia nonna continuava a tenere aperta la rivendita di fiori che aveva in Via Beccheria. Lei dosava gli ingredienti di cui custodiva gelosamente la ricetta tenendola segreta e dirigeva i lavori con il suo piglio da generale; mio nonno impastava a mano chili e chili di farina sino a quando, finalmente ma a malincuore perché pare che l’impasto venisse peggio, si decisero ad acquistare un’impastatrice professionale elettrica; mio zio doveva smetterla di bighellonare com’era sua abitudine, saltellava perciò tutto il giorno dal banco dei frati a quello dei fiori portando a mia nonna l’incasso per evitare che mio padre o mio nonno lo facessero sparire, le dava una mano e poi, quando c’era ressa in piazza, si metteva alla friggitrice; mio padre lasciava l’officina e i bar in cui normalmente trascorreva la maggior parte del suo tempo e, non senza bofonchiare, era costretto a dare forma alle ciambelle in modo che potessero essere fritte nella giusta grandezza, con il giusto volume; mia madre, io e mia sorella eravamo destinate alla vendita. Non so quando mia nonna aprì per la prima volta il banco, ma di certo rimase attivo almeno sino al 1978, quindi vi ho lavorato che ero piccola, tanto che per consentirmi di arrivare all’occorrente per incartare i frati e porgerli, mi mettevano in piedi su una sedia. Ricordo che mi avevano preparato un foglietto su cui era scritto il costo delle ciambelle moltiplicato sino a venti, oltre dovevo farmi aiutare, tuttavia, controllata a vista, ho imparato presto a far di conto e dare il resto.

Piazza San Michele, a Settembre, era spettacolare. Piena di gente indaffarata e vociante, persone che venivano da tutta la provincia per fare acquisti, assistere alla processione, godersi i giorni di festa. Non vi era un banco uguale a un altro – ognuno aveva il suo, come gli pareva ma rigorosamente di legno, poi il Comune impose le sue strutture prefabbricate tutte uguali e a poco a poco il mercato perse il suo fascino, la sua identità, la sua capacità attrattiva al di là dello scopo commerciale. C’erano i fratelli Baldi, venditori di piatti che avevano una verve trascinante da imbonitori e giocolieri, facevano volare le stoviglie che era una meraviglia, si poteva passare la giornata guardandoli; c’era il carnevale di colori e profumi del venditore di dolciumi - l’arte di prepararli e stenderli ancora bollenti sul marmo, attirava a sé frotte di golosi e fanciulli; vi erano i giocattolai con i loro articoli a buon prezzo che facevano la gioia di noi bambini; i venditori di zucchero filato e palloncini (all’epoca solo tondi); i banchi specializzati nella vendita dei grembiuli per la scuola, bianchi o neri, come usava al tempo in cui si dividevano gli scolari in maschi e femmine, nascondendone almeno la classe sociale affinché non fossero discriminati a causa del differente abbigliamento; vi era un po’ di tutto, merce per ogni necessità e tutte le tasche.

Il giorno di Santa Croce, l’apoteosi. I fedeli e i curiosi arrivavano di buon mattino per occupare i posti migliori lungo il percorso della processione. I membri dei gruppi si davano il cambio durante le ore di attesa, perché starsene fermi, difendendo la posizione con le unghie e con i denti, era compito assai gravoso. Ovunque capannelli e bivacchi, e in mezzo gli addobbatori che, cercando di farsi largo nella ressa, talvolta anche a costo di furiosi litigi (sempre spostando a mano le lunghe scale di legno tenute in verticale, issando con le corde le sporte sino ai piani più alti degli edifici), collocavano i bicchieri di vetro negli anelli di filo di ferro posti sulle sagome che adornavano le facciate dei palazzi, intorno alle vetrine dei negozi, le finestre, le porte, i cornicioni. Il primo giro per i bicchieri, il secondo, verso sera, per accendere i lumini che il vento, immancabilmente, in parte spengeva. Ogni tanto qualche bicchiere esplodeva per effetto del calore della fiamma, senza che questo creasse alcun allarme – il popolo di Santa Croce era abituato ad affrontare qualunque pericolo, qualunque avversità, anche meteorologica. E infatti pioveva. Ha sempre piovuto: acqua a catinelle, una consuetudine che, nonostante i cambiamenti climatici, di tanto in tanto, ancora, si ripete, con gran divertimento di chi osserva la processione raggiungere il duomo a passo insolitamente spedito, quasi correndo - ma a quei tempi no, non si poteva, e nonostante il fortunale, ognuno rimaneva al suo posto, stoico, ogni figurante proseguiva il cammino, eroico, trascinando il passo con lentezza. Un'interminabile Via Crucis.

In effetti, il cattivo tempo era una tradizione che caratterizzava quasi tutto il settembre lucchese, non solo il giorno della luminaria. Quando andava bene, ci si bagnava dalla testa ai piedi a giorni alterni. Le tende dei banchi avevano sempre qualche buco da cui filtrava la pioggia – ricordo secchi e bacinelle dappertutto, ho visto teli di plastica posti tra un banco e l’altro a far da ombrello gonfiarsi, cedere per il peso scaricando l’acqua addosso ai passanti. Insomma, venti giorni di guerra contro i monsoni, poi, nelle poche ore di sole, si apriva il tavolino da Picnic, si andava al Piccolo Mondo a comprare crostini toscani con fegato, lasagne verdi, fritto misto e finalmente si mangiava tranquilli, ci si asciugava.

Ma a Santa Croce, se non pioveva, non era la stessa cosa. Non c’era magia senza pioggia. Il suono dei tamburi m’incuteva paura almeno quanto i tuoni, i fuochi d'artificio, la mummia di Santa Zita e gl’incappucciati della misericordia. Durante la processione la vendita si fermava, ma sebbene mi mettessero in piedi sul bancone, da bambina, a parte qualche croce e bandiera, non ho mai visto un granché. A processione terminata, le persone, prima di abbandonare la piazza per andare verso il duomo o tornarsene a casa, venivano a comprare le ultime sacchettate di frati, in genere a decine. Li prendevo dal vassoio ancora bollenti, con gesto fulmineo li gettavo nello zucchero, un colpetto e li giravo per inzuccherarli dall’altra parte, poi li lanciavo nel sacchetto di carta per non bruciarmi e via, avanti il prossimo.

Avevamo molti clienti fissi, affezionati. Chi veniva da noi non andava sull’altro lato della piazza. I nostri frati erano migliori perché non tornavano su. Quelli del Nelli, invece, ancora oggi, seppur ottimi, si fa fatica a digerirli. Il merito di tanta leggerezza era di uno o più ingredienti che nonna non aveva confidato nemmeno a suo marito. La ricetta, insieme alle tante, piccole cose che rendevano la vita sopportabile malgrado tutto, è morta con lei.

P.S.

A Lucca, oltre al Nelli (nel collage in una foto del 1954), vi è anche un altro rivenditore di frati: si trova accanto a Porta Santa Maria, uscendo dalla città subito sulla destra. E’ un chiosco fisso, si chiama “Specialità da Piero” ed è in attività dal 1955. I suoi bomboloni ripieni di crema o cioccolata sono squisiti, se vi capita fermatevi ad assaggiarli.

N.B.

La fotografia del venditore di zucchero filato al centro, è di Muro Pucci.

 

 

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