Maria Virginia Paradisi
IN ITALIA
Le bambine e i bambini appartenenti alle classi popolari nell'Italia dell'Ottocento pre-unitario lavoravano precocemente, erano senza istruzione e senza tutele, soggetti a malattie conseguenti allo scarso o povero cibo, alla igiene non esistente, al vivere in case malsane: la mortalità nel primo anno di vita raggiungeva percentuali altissime che permanevano in età successive, fino ai 5 anni di età. Con la nascita del Regno d'Italia cambia poco anche se si iniziano a pubblicare statistiche, inchieste che, partendo dalla situazione a dir poco drammatica del lavoro minorile e delle conseguenze sulla salute e sulla mortalità di tanta infanzia di fatto abbandonata, provocavano discussioni simili a quelle avvenute in Inghilterra, Francia, Germania fin dal primo decennio del secolo XIX. In quei paesi europei si erano potute denunciare le tristi realtà del lavoro minorile. In Italia l'industria era ancora scarsamente sviluppata e non esistevano grandi stabilimenti "nei quali la presenza dei bambini costituisse un fenomeno di rilievo" (D. Bertoni Jovine, L'alienazione dell'infanzia, Luciano Manzuoli ed., pag. 15). Certo, i i bambini iniziavano a lavorare appena in grado di utilizzare braccia e mani ma il lavoro restava, quasi sempre, nell'ambito familiare o agricolo o artigianale come era tradizione da secoli. Dopo l'Unità d'Italia emersero via via situazioni e dati sui fanciulli che lavoravano nelle miniere di zolfo in Sicilia o nelle fabbriche tessili del Nord ma non sembravano costituire un grosso problema nazionale. Lo scarso sviluppo economico del nostro Paese spingeva la popolazione povera ad abbandonare i figli più piccoli al vagabondaggio che divenne "una fonte di lucro organizzato in mano a gente senza scrupoli" (così vengono definiti i procacciatori di bambini nel libro sopra citato); così, accanto ai bambini ingaggiati in tenera età come lavoranti nelle fabbriche esistenti si verificava "una vera e propria tratta di bambini destinati all'accattonaggio e a pseudo mestieri girovaghi". Specialmente nelle regioni meridionali ma anche in Piemonte "la compravendita di fanciulli d'ambo i sessi, impiegati sul territorio nazionale o all'estero come mendicanti, giocolieri, suonatori ambulanti, danzatori, aveva già provocato azioni repressive da parte del governo piemontese e dello stesso governo borbonico" ma, scrive ancora D. Bertoni Jovine, si era trattato di un "fenomeno limitato conseguente a periodi di carestia". Con il raggiungimento dell'unità nazionale "le industrie del Nord trovarono migliori condizioni di sviluppo mentre nel Mezzogiorno la miseria divenne più dura": la "tratta dei fanciulli si localizzò nelle provincie napoletane, calabresi e lucane". L'opinione pubblica era più indignata dallo spettacolo della mendicità che non, in generale, dall'occupazione giornaliera in duri lavori dei bambini negli opifici e nelle manifatture. Per questo l'intervento delle autorità ufficiali del neonato Regno d'Italia si volse, "prima ancora che alla regolazione del lavoro, alla repressione del vagabondaggio che costituiva una fastidiosa testimonianza, anche in terra straniera, della miseria e dell'arretratezza italiana". Nel 1869 e nel 1872 nel Parlamento italiano furono presentate proposte di legge che consideravano la tratta dei fanciulli, all'estero e all'interno, reato punibile con carcere e multe per i genitori che avessero consegnato i propri figli minori di 16 anni "a nazionali o stranieri" per impiegarli in professioni girovaghe. Le proposte non ebbero seguito soprattutto perché si riteneva inaccettabile l'intervento dello Stato nella vita familiare. Mentre in Italia si cominciava a discutere sulla questione dei bambini vagabondi, nei paesi industrialmente sviluppati erano in corso inchieste e studi sull'assunzione e la presenza dei bambini nelle fabbriche. Ma anche nell'arretrata industria nazionale, in Piemonte e nel Lombardo-Veneto era già evidente la tendenza ad adoperare più largamente la mano d'opera infantile per tenere basso il costo del lavoro specialmente nelle fabbriche tessili. Proprio nel Lombardo-Veneto era stata emanata nel 1844 una Disposizione tutelare del lavoro dei fanciulli che vietava, ad esempio, l'impiego dei bambini che non avessero compiuto i 9 anni e regolava la durata del loro lavoro: anche l'istruzione elementare di almeno due anni veniva prevista e, se i bambini non l'avevano, il proprietario doveva fornirla.
IN LUCCHESIA
In Lucchesia, zona preminentemente agricola, esistevano opifici, specie del settore tessile, che impiegavano molti "lavoranti" ed esisteva da tempo la Manifattura Tabacchi che impiegava soprattutto donne, ma la prima vera e propria industria sarà lo Jutificio Balestreri di Ponte a Moriano. Lucca città, negli anni 70/80 dell'Ottocento si distingueva per il permanere di mestieri artigianali che si svolgevano nelle botteghe, ancorché in diminuzione, presenti nelle sue vie. In queste botteghe di sarti, fabbri, falegnami, calzolai, orafi e argentieri e anche nelle numerose tipografie, imparavano i mestieri molti bambini come garzoni/apprendisti mentre per le bambine i lavori rimanevano nell'ambito familiare del lavoro tessile a domicilio anche se già parecchie prestavano le loro piccole mani negli opifici disseminati nel tratto cittadino del Pubblico Condotto. Nelle frazioni del Comune le attività prevalenti erano quelle agricole e sia i bambini che le bambine ad esse si dedicavano appena possibile, sempre in aiuto ai familiari. I problemi del lavoro minorile precoce, rimasti, quasi del tutto, prima degli anni Ottanta dell'Ottocento, nell'ambito familiare si fecero più evidenti dopo l'apertura dello Jutificio Balestreri e l'inizio del processo di industrializzazione. Come in altre realtà italiane si tendeva ad assumere un gran numero di bambini per i lavori meno qualificati, di aiuto agli adulti (forse agli stessi genitori) e non si considerava affatto la tenera età come ostacolo al lavoro in ambienti umidi, malsani, pieni di polveri. L'apertura dello Jutificio comportava l'assunzione di manodopera e soprattutto di bambine, così, nel marzo del 1882, Emanuele Balestreri, attraverso lettera al Sindaco, chiede ai Pii Istituti di Lucca ragazzine dai 10 ai 14 anni da impiegare nel suo stabilimento di Ponte a Moriano. Alcune frasi della lettera sono significative: “Stimai essere opera filantropica accoglierne un certo numero...”. L'opificio: “in amena località, godente aria sana e clima buonissimo. Vi sono annesse tutte le comodità intese al benessere dell'operaio. Cucine, dispense per oggetti di vestiario e viveri, medico ecc..” (...) “Un grandioso locale eretto ad uso di dormitorio è sottoposto alla sorveglianza delle Suore di Carità da me stabilitesi appositamente, le quali potrebbero incaricarsi delle giovinette”. Le giovinette devono essere dotate di “robusta e sana costituzione”. Avranno subito vitto e alloggio gratuiti e imparerebbero il lavoro possibile alla loro età, ”poi si penserebbe al loro migliore avvenire”. La lettera di E. Balestreri, viene girata ai due istituti più grandi della città: i R.R. Spedali ed Ospizi, dove erano ospitati i trovatelli, e la Pia Casa di Beneficenza, dove erano ammessi bimbe e bimbi orfani. Il più sollecito nel rispondere è il direttore della Pia Casa, Luigi Moscheni. Avvertita della novità suor Cordiviola, Piccola Suora della Carità dell'Istituto di Francia, che seguiva il reparto femminile, ne riceve una risposta contraria a far uscire le bambine dallo "Stabilimento" considerando che “ci si allontanerebbe tutt'affatto dallo scopo della Pia Casa". Cordiviola pensa anche che da questo cambiamento ne potrebbero derivare “inconvenienti morali”. Il direttore, il 20 marzo, sentita la Commissione Amministrativa, rifiuta l'offerta dell'imprenditore genovese, pur dichiarandosi “dolente” di non poter aderire: “...tale invio non sarebbe consentaneo alle discipline di questa Pia Casa, le quali impongono che le Alunne debbano ricevere entro lo Stabilimento l'educazione e l'istruzione ad esse conveniente”. Aggiunge anche che la risposta a questo tipo di richieste di orfani e orfane era stata negativa in altri “casi congeneri” e cita i Salesiani e l'impreditore lucchese Ing. Casentini. Del 28 marzo è la risposta del Commissario dei RR Spedali ed Ospizi, “possibilista” ma sostanzialmente negativa: 1) Non ci sono in ospizio ragazzine dai 10 ai 14 anni: risiedono nelle famiglie che, spesso, le hanno avute neonate da allattare e che le tengono, quasi tutte, con affetto. 2) Qualche rara volta capita che rientrino in ospizio, quasi sempre per “malferma salute” o "imperfetta salute fisica”, in genere in età più tarda, dai 18 ai 25 anni. 3) Se capitasse qualche caso di bambine dai 10 ai 14 anni e di robusta e sana costituzione e si potrà ancora usufruire dell'offerta di E.B., se ne occuperà l'Ispettore Economo che ha come principale incombenza quella del collocamento degli Esposti.
Il Sindaco di Lucca, ricevute le risposte dei due Istituti, il 30 marzo comunica il risultato delle “pratiche fatte” al Sig. Balestreri che replica il 1 aprile, ringraziando il Sindaco e aggiunge che vedrà in seguito “...se si presenterà l'occasione di poter essere utili ai disgraziati...”. Richieste di questo tipo non erano insolite: molti istituti per minori concedevano ai proprietari delle fabbriche la possibilità di far lavorare i loro piccoli ospiti nell'industria, ad esempio a Lecco erano mandati nelle fabbriche i ragazzi del grande ospizio milanese degli Estensi e questo ben prima del 1882. A Lucca, però, questo non sarebbe stato possibile, non sarebbero stati inviati agli opifici poiché ciò contrastava con una cultura tradizionale che vedeva nell'artigianato, nell'agricoltura e nei servizi il destino dei piccoli assistiti. Troppo scompiglio avrebbe provocato nell'andamento degli "Stabilimenti" della città e sarebbe stato in contrasto con i Regolamenti; figuriamoci, poi, se si richiedevano bambine. Nella nostra città esistevano, abbiamo visto, Istituti per il ricovero e l'assistenza ai bambini poveri. Due erano quelli più grandi che potevano ospitare numerosi bambini e bambine. Diversi, vedremo, come finalità.
Il BREFOTROFIO o Ospizio dei lattanti (presso l'Ospedale, Parrocchia di San Luca) e la PIA CASA DI BENEFICENZA
Il Brefotrofio era suddiviso in due edifici: l'Ospizio Esposti in Via del Crocifisso n. 1 e l'Ospizio di Maternità, in Piazza San Donato, n. 8. (A.S.C.Lu, Censimento della popolazione 1881). Il primo edificio era composto di 5 stanze a pianterreno e 27 stanze ai piani superiori, non erano presenti stanze sotterranee né soffitte. Al 31 dicembre 1881 erano presenti al suo interno 5 maschi e 123 femmine, tutti con dimora abituale. Delle femmine, la più giovane era nata nel 1876, la più vecchia nel 1798. 46 di esse sapevano leggere e scrivere, 11 soltanto leggere e 66 erano analfabete. Dei 5 maschi 1 sapeva leggere e scrivere. Interessanti i cognomi che venivano assegnati alle Figlie dello Spedale di Lucca: Massa, Cune, San Ginese, Toringo, Granajola, San Macario, Piazzano, Lunata, Coreglia, Collodi, Gello, Gattajola, Capannori, Controni, Casabasciana, Pescaglia, San Concordio, Santa Maria a Colle, Boveglio, Compito, Guamo, Diecimo - tutti nomi di frazioni della provincia di Lucca che non indicavano però il luogo di provenienza delle trovatelle. L'Ospizio Esposti, scrive il Prefetto Bernardino Bianchi, nel 1879, "somministra(va) il personale di servizio negli Ospedali". (Consiglio Provinciale di Lucca - seduta dell'11 agosto 1879 -, Relazione del Comm. Bernardino Bianchi prefetto della Provincia, Tipografia Giusti, Lucca, 1879). L'Ospizio di Maternità, era composto di 14 stanze ai piani superiori. Al momento del Censimento erano presenti al suo interno 12 maschi e 29 femmine, in totale 41 persone. Maestra dell'Ospizio di Maternità era Ortenza Pescaglia, Figlia dello Spedale, nata nel 1827. La levatrice si chiamava Teresa Mei, fu Angelo Biagi, coniugata con Carlo Mei, nata a Viareggio nel 1844. Maestra e levatrice erano alfabetizzate. C'erano poi 5 donne con qualifica di "servente": tutte trovatelle o Figlie dello Spedale, tutte nubili, 4 alfabetizzate, una no. La loro età andava dai 23 ai 59 anni, ignoto il luogo di nascita. Le nutrici erano otto, 6 delle quali con dimora occasionale e 2 con dimora abituale; tutte sono figlie legittime, l'età va dai 17 ai 42 anni, 5 sono nubili, 2 vedove, 1 coniugata. Solo una sapeva leggere e scrivere. I loro luoghi di nascita erano Castelnuovo Garfagnana (1), Lucca (2), Buggiano (2), Minucciano (1), Pescaglia (2). E c'erano altre 8 donne così classificate: 2 domestiche (1 con dimora abituale), 2 contadine e 4 contadine braccianti tutte con dimora occasionale, tutte nubili meno una, di età dai 18 ai 29 anni: 3 su 8 sapevano leggere e scrivere. Sono forse donne che hanno partorito o devono ancora farlo. E poi c'erano i bambini: 15 i neonati nati in dicembre (tranne uno di 7 mesi). Un bimbo di 1 anno. Una bimba di 2 anni. Una ragazzina di 15 anni che non sa leggere né scrivere. Dei 15 neonati, 11 sono maschi e 4 femmine. I cognomi che sono stati assegnati in questo periodo sono del tutto inventati come quelli in uso allo Spedale degli Innocenti di Firenze: Morri, Vassi, Cadoni, Moleni. Di tutti i 18 bambini sappiamo il luogo di nascita: Lucca 9, Capannori 2, Pietrasanta 1, Pescia 2, Buggiano 2, Borgo a Mozzano 1, Coreglia Antelminelli 1. La loro dimora viene definita abituale. La presenza delle 6 nutrici con dimora occasionale ci indica, probabilmente, che esse stiano allattando o abbiano accompagnato gli esposti all'Ospizio. Vediamo, quindi, che sono due i luoghi dove vengono ospitati i figli dell'Ospedale di Lucca. Nel primo, l'Ospizio Esposti, troviamo gli adulti, nel secondo, l'Ospizio di Maternità, i neonati abbandonati insieme alle madri, alla levatrice, alle nutrici. Da questi dati non avremmo, però, presente la situazione dei nostri trovatelli che erano numerosi e qui non compaiono, poiché la maggior parte di essi si trovavano fuori, da balie della campagna, in genere, che per il loro primo anno di età li allattavano. I bambini e le bambine che venivano abbandonati erano classificati, in primo luogo, come illegittimi o legittimi ma a Lucca era rarissimo l'invio di neonati legittimi all'Ospizio di Maternità e solo nei casi tragici di morte della madre (che non era rara) o nella impossibilità dell'allattamento per malattia o altro. I legittimi venivano affidati per un anno a una nutrice e rimandati poi in famiglia. Tutti gli altri, illegittimi, dopo le prime cure, uscivano dall'Ospizio con una nutrice che veniva pagata per allattare un anno e, quando il bambino diventava "da pane" (fino a un anno di età era "da latte"), sollecitata a tenere il bambino presso la sua famiglia ancora con un sussidio. L'esposizione dei figli legittimi costituiva un grosso problema specie nelle grandi città come a Firenze, ad esempio, dove per il tramite della Ruota, si potevano abbandonare nascostamente figli che venivano ad appesantire il carico familiare: generalmente si ponevano dentro le loro fasce oggetti (medaglie spezzate, monete, vestiario particolare) che rendessero poi possibile il riconoscimento; si pensava quindi di riprenderli. Anche a Lucca era esistita la Ruota, chiamata da Pietro Pfanner "boccaiola" ma era stata sempre poco usata, rimaneva sui Regolamenti ma "la relativa eccezionalità delle esposizioni clandestine non rese mai così necessaria e urgente" la sua formale abolizione (Tesi di laurea di Donatella Lenzi, "La numerosa famiglia d'infelici. L'ospedale di San Luca e gli esposti a Lucca nella seconda metà dell'Ottocento", Università di Firenze, A.A. 1995/96, pag. 72). Dalla seguente tabella emergono dati più completi riguardo ai Trovatelli lucchesi.
Si nota subito il numero piuttosto basso di bambini legittimi presenti in istituto che, dopo l'anno del latte, cessavano di essere assistiti. A gennaio 1887 risultano più di 1000 illegittimi "da pane" che divengono 1131 alla fine dell'anno. Dentro l'ospizio alla fine dell'anno restano 16 bambini "da latte" e 131 "da pane", un numero basso, in linea col dato del Censimento 1881; l'equilibrio del Brefotrofio derivava dunque dal lasciare alle nutrici esterne e alle loro famiglie i neonati dati in allattamento concedendo loro un sussidio. Ai tenutari dei bambini venivano pagate annualmente L. 144 per i bambini da 1 ai 2 anni, L. 60 dai 2 ai 6 anni, L. 36 dai 6 ai 10. Solo per le femmine il sussidio permaneva anche dagli 11 ai 12 anni ed era di L. 28 (ASLu, Lettera del direttore dei R.Ospedali e Ospizi al Prefetto di Lucca, Scritture del Protocollo, a. 1878). La maggior parte dei trovatelli rimaneva dunque presso famiglie affidatarie e questo permetteva all'Ospizio Esposti di mantenere un numero assai esiguo di bambini "da pane" e di fornire loro un lavoro da adulti: chi rimaneva presso le vecchie balie o presso altri affidatari generalmente era destinato ai lavori agricoli, i rimasti, o rimandati in Ospizio sarebbero stati impiegati, maschi e femmine, nei servizi dei Reali Ospedali, in cucina, per le pulizie, come aiuto infermieri. Il numero dei bambini illegittimi deceduti sotto l'anno di età (da latte) è di 90: una percentuale di circa il 27,5% che rimaneva al di sotto di quella degli altri Brefotrofi italiani (43,6%). Nell'Istituto fiorentino degli Innocenti erano "(...) costantemente segnalate l'alta mortalità degli esposti, la difficoltà di reperire balie per allattare i gettatelli prima di inviarli a balia (...) e anche la scarsità di balie di campagna e i pochi mezzi per pagarle e per mantenere la famiglia interna". Ma il nostro Brefotrofio non spiccava certamente tra gli altri né per spazi salubri né per igiene. G. De Navasqués, in "Reparto di Maternità di Lucca. Resoconto statistico sanitario del decennio 1875-1884", Tipografia Giusti, Lucca 1885, scrive: "(...) il nostro ospizio non ha di Maternità che il nome (...) il locale non è conciliabile con le più volgari esigenze dell'igiene, né con quelle imprescindibili della carità, della disciplina, delle convenienze, e della moralità". Nel decennio 1875-1884 erano stati accolti 1834 esposti che, dopo l'anno del latte, ricondotti all'Ospizio, non potendo subito essere collocati a tenuta, si trovavano in un locale che riusciva "funesto" e di grandissimo danno per la loro salute e, purtroppo, il progetto di "trasloco dell'Ospizio mortifero" che era stato previsto dall'Amministrazione provinciale nel 1875 insieme ai lavori del nosocomio, rimase allo stato di progetto e, il locale, dopo dieci anni era sempre "nell'orribile stato di prima". Nel 1898 il Brefotrofio lucchese si trovava ancora in quelle condizioni (Reali Ospedali e Ospizi di Lucca, "Relazione della gestione provvisoria del R. Commissario Alfredo Conti medico provinciale", Tip. Alberto Marchi, Lucca, 1898). Nella sua relazione il dottor Conti cita abbondantemente un resoconto che l'ispettore sanitario del Ministero dell'Interno, commendator Germonio, visitati Brefotrofio e ospizio Esposti, aveva compilato. Ecco le parole di Germonio: "L'ospizio degli esposti lattanti (...) ha bisogno per essere migliorato solamente del piccone (...) Non parlo della parte destinata al ricovero degli esposti, un vero e proprio scannatoio, dove questi infelici in generale rachitici, scrofolosi e anche tubercolosi dormono in sottotetti quasi privi di quell'aria e di quella luce di cui avrebbero tanto bisogno, soffocati da caldo nell'estate, assiderati nell'inverno (...)". Sappiamo che un nuovo Brefotrofio non fu mai approntato e che il problema dell'Ospizio Esposti fu risolto chiudendolo. Il 14 luglio 1914 si stipulò una convenzione tra "il Commissario prefettizio dell'Ospedale e l'Amministrazione della Pia Casa di Beneficenza secondo la quale, compiuta l'età di 4 anni, i bambini esposti sarebbero stati accolti" proprio nell'istituto lucchese destinato agli orfani (Tesi D. Lenzi, cit.).
Un vanto di cui poteva andar fiero l'Ospedale di Lucca era quello di aver organizzato i primi soggiorni marini e le cure dei bagni di mare proprio per i trovatelli che si trovavano "in condizioni fisiche tristi e bisognevoli quindi di cure salutari". Questo già a partire dal 1822 quando pochi bambini venivano affidati a privati cittadini di Viareggio che li alloggiavano e mantenevano "a un tanto per uno" (Vito Tirelli e altri, "Cassa di Risparmio di Lucca 150 anni", Matteoni, Lucca, 1987). Nel 1842, su proposta dell'allora direttore dell'Ospedale, Antonio Ghivizzani, fu acquistato un locale appartenuto a una caserma di carabinieri che ospitò, tra il 1841 e il 1863 "ben 2110 trovatelli" (Tesi Lenzi, pag. 150). Proprio dal 1863, "poiché scrofola, rachitismo e tutte le altre malattie erano molto diffuse fra la popolazione infantile povera, si pensò di estendere anche a quest'ultima disgraziata categoria sociale il diritto alle cure e al soggiorno marino". Mentre per i bambini esposti i costi del mantenimento erano a carico dell'Amministrazione ospedaliera, per tutti gli altri contribuiva alla spesa la Provincia (dal 1887 anche la Cassa di Risparmio di Lucca iniziò a concedere sussidi, poi divenuti "somma corrispondente alla spesa per 300 posti"(Tesi Lenzi, cit.). In una tabella contenuta nella citata relazione del prefetto B. Bianchi e riguardante gli anni 1876-78, si contano per il primo anno 365 bambini assistiti (maschi e femmine), distribuiti in quattro turni; diventano 370 nel 1877 e 397 nel 1878. Nei tre anni 1132 piccoli ospiti e quasi sempre in numero maggiore le bambine. L'altro ospedale che dava cura e sollievo agli esposti adulti era il Demidoff, a Bagni di Lucca e ospitò in quegli stessi anni 798 individui, anche qui in numero maggiore donne.
PIA CASA DI BENEFICIENZA, Via Santa Chiara
L'edificio si componeva di 17 stanze al pianterreno e 49 ai piani superiori. Erano presenti al 31/12/1881 93 maschi e 102 femmine per un totale di 195 persone.
Sono escluse dal numero delle femmine le 5 Suore Figlie della Carità che erano tutte alfabetizzate. I maschi e le femmine di età superiore ai 25 anni sono cuoche, guardie di vigilanza e altro personale di servizio. Persisteva ancora un piccolo numero di anziani (maschi e femmine) che non potevano essere collocati altrove. In questo istituto, che fu diretto per più di trent'anni (dal 1872 al 1903) dall'avvocato Luigi Moscheni venivano ammessi, in maggioranza, bambine e bambini orfani dai 4 ai 10 anni che rimanevano generalmente fino ai 17 anni compiuti ("al toccare dell'anno diciottesimo") se maschi, e fino ai 21/25 se femmine. I maschi frequentavano le scuole comunali di Piazza Santa Maria Forisportam e avevano anche una sorta di doposcuola serale anche quando già erano coinvolti in attività lavorative; per le femmine la scuola era interna e diretta da una Figlia della Carità e così tutta l'attività lavorativa. I mestieri esercitati dai maschi, che in genere venivano svolti nelle botteghe della città, erano quelli di sarti, calzolai, fabbroferrai, falegnami, tipografi, cappellai, vernicisti, orefici, ombrellai, marmisti, legatori di libri, sellai, tappezzieri, fornai. Artigiani, quindi, in qualche caso nel terzo settore (domestici, commessi di negozi, ecc.) ma non si inviavano ragazzi negli opifici o nelle nascenti industrie. I bambini presenti nella Pia Casa dopo aver terminato il breve corso di studi venivano inviati generalmente alle botteghe artigiane presenti in città. Erano gli stessi proprietari delle botteghe a richiederli, spesso proprio nominalmente, rivelando una rete di rapporti di conoscenze all'interno della città: si richiedeva quel particolare bambino perché si erano conosciuti i genitori, i parenti, perché si abitava nelle stesse vie o in quelle vicine, perché gli zii o i nonni del bambino conoscevano l'artigiano. I mestieri delle femmine rimanevano relegati all'interno dello "Stabilimento" e consistevano nel cucire, nel tessere, nel filare, nell'incannare, nel fare calze (alla fine del 1881 risultano 51 femmine che svolgono le attività di calzettaia e cucitrice, 9 di filatrice, 6 di tessitrice). Tutte attività storicamente considerate adatte alle donne e da espletare all'interno dell'Istituto. Le piccole mani delle bambine si esercitavano ben presto con aghi, ferri, stoffe, lane e dal 1886 poterono utilizzare anche una macchina “da cucire” che fu acquistata per 100 lire nel negozio di Narciso Landucci. Il direttore Moscheni così giustifica alla Ragioneria della Pia Casa questo acquisto: “Per quanto l'arte del cucire consista principalmente nel saper lavorare con l'ago, e debbano precipuamente in questo modo di lavoro addestrarsi le donne, l'ingegnoso progresso della scienza è riuscita a supplire oggi in una maniera veramente mirabile al più lungo e paziente lavoro della mano con la invenzione delle macchine da cucire; e sarebbe incompleta la istruzione domestica di una donna se almaneggiare dell'ago non aggiungesse la pratica del lavoro a macchina. Questa ragione imponeva che anche per l'istruzione delle Alunne di questa Pia Casa si acquistasse una macchina da cucire...”. Le bambine si esercitavano, quindi, in attività che le avrebbero portate a divenire, una volta uscite, brave madri di famiglia o esperte domestiche in case “particolari”: sapevano leggere e scrivere, rammendare, aiutare le cuoche in cucina, cucire e soprattutto avevano incamerato pazienza e parsimonia. La nascente industrializzazione con la possibilità anche per molte donne di un impiego negli opifici lucchesi non sembra entrare nella mentalità della direzione dell'orfanotrofio lucchese. Eccezioni ce ne furono ma gestite con la massima cautela: eccone due esempi.
“...poco confacente esporsi alle esalazioni del tabacco talora nocive.”
La Manifattura Tabacchi occupava un gran numero di donne e nella gestione delle assunzioni una parte dei posti erano riservati alle figlie di lavoratrici decedute. Così accade a Antonietta Asciutti, alunna della Pia Casa dal 1884: il padre Achille, falegname e la madre Angela Barsotti, sigaraia, muoiono a distanza di pochi mesi l'una dall'altro, ambedue per “etisia” (1). Nel 1886, Antonietta, minorenne, viene convocata a presentarsi in fabbrica, secondo la regola che vedeva le figlie sostituire le madri nei lavori della Manifattura Tabacchi. Il direttore Moscheni scrive al Pretore di Lucca-città affinché convochi il Consiglio di famiglia (costituito dagli zii paterni e materni) e aggiunge di ben capire che per la ragazza questo posto sarebbe la maniera di “assicurarsi un guadagno generalmente ambito e bastantemente lucroso” ma che “sarebbe meglio per il momento soprassedere” (se Antonietta non perdesse il suo diritto) e continua spiegando che questo collocamento si scontra con “l'età e la delicata complessione” per la quale sarebbe “poco confacente esporsi alle esalazioni del tabacco talora nocive”. Antonietta non andrà alla convocazione e uscirà dalla Pia Casa nel 1892.
“Bisogna vedere se la ragazza si presterà a lavorare al Balestreri”
Un altro caso interessante è quello di Teresa Ghianda, ammessa nel 1874 dopo la morte della madre. Ha nove anni, un padre acquajolo, una sorella di 15 anni e un fratello di 12. Viene ammessa con “un vestiario assai decente” e risulta “male affetta d'occhi”. Resta 11 anni nella Pia Casa e quasi maggiorenne “vuol sortire” dallo Stabilimento per tornare col padre, adesso risposato e abitante in Via Pozzotorelli n. 840, Piano 1°, Corte del Paoli. Il padre è restìo a prenderla in casa e Teresa si sfoga col direttore Moscheni che scrive, il 17 novembre 1885, una lettera all'Ispettore di P.S. di Lucca facendo presente che la ragazza “(...) ha ricevuto la educazione della quale era capace, perché sin d'allora alquanto infelice nella vista (...) e che sopra tutto si è esercitata nel tessere, nel qual mestiere è riuscita assai abile”. Teresa, continua il direttore, è quasi maggiorenne, è abile a proficuo lavoro ma il padre “non la vuole” e la ragazza minaccia di fuggire. Termina la lettera invitando l'Ispettore a convincere il padre a fare “il proprio dovere”. Questi risponde il 10 dicembre facendo presente che il padre “non guadagna assai” e che la moglie è spesso assente da casa. Propone allora di farla lavorare alla Fabbrica Balestreri “ove avrebbe vitto e alloggio”. Il direttore Moscheni, il 18 di quello stesso mese, replica che non gli “sembrano buone le ragioni, e dirò meglio, pretesti allegati da suo Padre e dalla sua matrigna per opporsi al suo ritorno in famiglia”, considera opportuna la proposta ma, dice testualmente, “bisogna vedere se la ragazza si presterà a lavorare al Balestreri” e termina dicendo che “se il Padre e la matrigna continueranno l'opposizione, dia pure luogo a pratiche a tal effetto”. Dopo quattro mesi una guardia di P.S. si reca alla Pia Casa per prendere Teresa che è stata ammessa come “operante” nella Fabbrica del Balestreri a Ponte a Moriano. Teresa però non si trova bene e lavorando tra le addette al disfacimento della juta si sente in pericolo per la propria salute per la molta polvere e, dice il Moscheni, “mal consigliata”, abbandona la Fabbrica e ritorna nel luogo che l'aveva accolta bambina. Il direttore comunica allora il fatto all'Ispettore di P.S. e lo avvisa di aver trovato la soluzione in “un buon zio materno”, falegname, che insieme alla moglie l'hanno accolta in casa (la Pia Casa fornì il letto e un sussidio in pane). Gli zii vorrebbero impiegare la nipote alla Manifattura, termina Moscheni, “può Lei favorire in qualche maniera questo lor desiderio?”. La Pia Casa di Beneficenza dal 1851 al 1895 era situata nell'antica Villa Guinigi, chiamata a volte Salone o Palazzo dei Borghi o, popolarmente, Palazzaccio e "benché meritasse esser chiamato dagli storici nostri opera di regale munificenza quando nei primi del 1400 Paolo Guinigi lo facea murare per suo diporto, adornandolo di vasti e deliziosi giardini, con l'andar del tempo, distrutta ogni amenità di sito, oppresso da casupole, e recentemente anche, con infelicissimo consiglio, inquinato dalla prossimità dei pubblici ammazzatoi, aveva aggiunto i difetti della insalubrità e della mancanza di opportuni accessori alle forme interne dell'edifizio poco adatte alla cambiatane destinazione in asilo di orfani e mendicanti". Queste parole furono lette (e stampate in un opuscolo) dal direttore della Pia Casa Luigi Moscheni, nella "solenne" inaugurazione del nuovo ricovero e cioè nella cosiddetta "trasmigrazione" da Villa Guinigi all'ex Monastero di Santa Maria degli Angeli (settembre del 1895). Oltre i due istituti maggiori citati, ne esistevano altri che ospitavano i bambini e le bambine, generalmente condotti da ordini religiosi. In questi istituti si educavano e istruivano, insieme ai figli di famiglie in grado di pagare una retta, anche un certo numero di bambini cui provvedeva "la carità". A Lucca erano due: l'Istituto Santa Dorotea, per le bambine, e l'Ospizio Santa Croce, gestito dai Salesiani.
NOTE (1) F. Petrini, op. cit., pp. 69-70
BIBLIOGRAFIA
G. Di Bello, L'identità inventata, Cognomi e nomi dei bambini abbandonati nella Firenze dell'Ottocento, Centro editoriale toscano, Firenze, 1993. Ai Lucchesi – Invito per l'instituzione d'una sala d'asilo o sia d'una scuola infantile per poveri in Lucca, Lucca, dalla tipografia Giusti, 1836 Documenti ASCLu, Censimento della popolazione, 1881, Busta 13. |
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